Stalking, la Cassazione valuta anche lo stress – 12 agosto 2010 –

Anche due soli episodi di minaccia o molestia possono valere ad integrare il reato di “atti persecutori” ex art. 612 bis c.p.

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 25527 dello scorso 5 luglio, torna a pronunciarsi sulla controversa figura dello stalking e, confermando il proprio orientamento sul punto, afferma che anche due sole condotte persecutorie possono ben integrarne i presupposti, “se abbiano indotto un perdurante stato di ansia o di paura nella vittima, che si sia vista costretta a modificare le proprie abitudini di vita”.

Bene giuridico tutelato dalla norma è la libera autodeterminazione del soggetto passivo, vittima di minacce o tormenti ossessivi posti in essere “reiteratamente” e nelle forme più disparate da uno “stalker”, o persecutore, tali da cagionare “un perdurante e grave stato di ansia o di paura  ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Nel caso di specie, difatti, la vittima era stata costretta a cambiare casa e città per evitare le pressioni del proprio coniuge che, tuttavia, “aveva rintracciato la nuova abitazione, manifestandolo alla moglie separata con il macabro segno di un cappio appeso dietro la porta di casa”.

In difetto di un parametro oggettivo in relazione all’effettiva durata e persistenza delle condotte moleste, i Giudici di Legittimità hanno quindi accolto un’interpretazione a prima vista ristretta e rigorosa della “reiterazione” negli atti persecutori, indicata dal Legislatore quale elemento caratterizzante della fattispecie delittuosa.

A parere di alcuni, tuttavia, l’automatico recepimento di una simile chiave interpretativa non parrebbe immune da critiche e, in ogni caso, mal si concilierebbe con la struttura dell’illecito in parola, poiché la richiesta “reiterazione” presupporrebbe, in concreto, un’abitualità tale da assumere una valenza soffocante per la vittima, anche alla luce delle gravi conseguenze richieste per il perfezionarsi del reato.

La questione, ad ogni buon  conto, non pare posta nei termini più corretti.

Il giudice, infatti, è chiamato a valutare, oltre che l’aspetto quantitativo delle condotte persecutorie, la sussistenza di un’effettiva potenzialità lesiva delle stesse nei confronti del bene giuridico protetto dalla norma.

Giova rilevare, infatti, che prima dell’introduzione della normativa in oggetto queste condotte, in apparenza inoffensive ma potenzialmente pericolose, oltre che degenerative, non erano perseguibili in quanto ritenute di nessun rilievo.

Numerose vicende, balzate tristemente agli onori della cronaca nel corso di questi anni, hanno purtroppo dimostrato il contrario.

Anche due soli episodi, come affermato dai Giudici di Legittimità, potrebbero pertanto risultare penalmente rilevanti e, quindi, sanzionabili, a condizione che la gravita degli stessi appaia idonea a minacciare l’equilibrio psicofisico e la libera autodeterminazione della parte lesa.

In una prospettiva di sempre maggiore tutela e salvaguardia dei diritti inviolabili della vittima – nella quasi totalità dei casi una donna, costretta a vivere in condizioni di stress estremo per le intrusioni nella propria vita privata del proprio persecutore e il timore per la propria incolumità fisica – è agevole comprendere l’importanza del ruolo dell’organo giudicante, chiamato volta per volta a valutare il numero degli eventi “persecutori” e la concreta portata lesiva degli stessi.