Mai più un caso Englaro e la legge ancora non c’è – 16 febbraio 2017 –

Otto anni fa moriva Eluana Englaro, la giovane donna rimasta in stato vegetativo permanente per circa 17 anni, dal 18 gennaio 1992 quando rimase vittima di un terribile incidente d’auto fino al 9 febbraio 2009, data in cui è sopraggiunto il decesso, preceduto e seguito da una serie interminabile di polemiche, dibattiti, ricorsi e sentenze in relazione al tema del testamento biologico e del consenso informato ai trattamenti sanitari.

Al tempo, pur essendo evidente l’insussistenza delle premesse per un sereno dibattito parlamentare, sembrava prossima, per non dire imminente la promulgazione di un testo di legge volto a colmare finalmente un vuoto normativo che si appalesava come non più tollerabile, affinché non si ripetesse più un “altro” caso Englaro.

Il tentativo di legiferare sul punto, com’è noto, non ha però avuto successo e, alla dolorosa vicenda di Eluana, sono seguiti negli anni successivi i drammi di Piergiorgio Welby, di Paolo Ravasin e, ultimo in ordine di tempo, quello di Dino Bettamin, il primo malato di sclerosi laterale amiotrofica che nei giorni scorsi ha scelto di porre fine alla sua esistenza con la sedazione palliativa.

È tuttavia abbastanza singolare, per non dire paradossale, constatare che a distanza di anni i termini della questione siano esattamente gli stessi: oggi come allora l’Italia è priva di una legge che riconosca ad una persona, perfettamente lucida, di indicare e chiarire in che modo governare la propria vita in futuro, laddove le facoltà intellettive non dovessero più consentire una scelta consapevole.

Le analogie non finiscono qui. Proprio come allora, infatti, oggi sembrano maturi i tempi per legiferare sul punto ma il clima politico in cui sta sviluppando il dibattito non è tra i più idilliaci.

A giorni la proposta di legge in materia di consenso informato, di disposizioni anticipate di trattamento e di testamento biologico, presentata lo scorso 8 luglio e attualmente in discussione alla Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, sembra destinata ad approdare finalmente in Aula e il rischio di una “spaccatura” in Parlamento appare quantomai concreto, al pari di un compromesso “al ribasso” volto ad accontentare un po’ tutti e nessuno.

In altri termini, sembrano purtroppo delinearsi nuovamente le premesse affinché un intervento volto a colmare un vuoto, per non dire una voragine sotto il profilo normativo, non si realizzi neppure questa volta, quantomeno a seguito di un percorso parlamentare condiviso e partecipato, come sarebbe auspicabile e per certi versi doveroso, alla luce dei principi enunciati nella nostra Costituzione.

Basterebbe infatti il riferimento costituzionale e, specificatamente all’articolo 32 che esclude l’obbligatorietà del trattamento sanitario, se non in taluni casi eccezionali previsti dalla legge, per tracciare al legislatore la rotta da seguire.

É tuttavia evidente che il problema attiene all’interpretazione del concetto di “trattamento sanitario” o, per meglio dire, se questo possa o meno ricomprendere l’alimentazione e l’idratazione, e il ruolo del medico. La conclusione non può che essere in linea con i principi ispiratori di uno Stato laico e quindi volta alla tutela della libertà di ognuno. La stessa libertà che consente, ad esempio, di iniziare lo sciopero della fame, come protesta estrema per diritti di cui si assume la violazione. La stessa libertà che consente ad ognuno di rifiutare, sempre a titolo esemplificativo, una trasfusione di sangue o un intervento chirurgico.

Ai fini della promulgazione di una “buona” legge in materia non occorrono particolari alchimie legislative né tantomeno formalismi eccessivi ma, semplicemente, il rispetto della dignità umana e dei diritti che la nostra Costituzione riconosce, in primo luogo, quello alla salute e al consenso informato dell’interessato che non può che rappresentare un punto di riferimento non negoziabile per la somministrazione del trattamento sanitario.