Corriere Adriatico 26 maggio 2016

Da anni assistiamo a netti dissensi, ovvero consensi di rassegnazione alle pur rilevanti riforme proposte dai governi che negli anni si sono alternati.

Frequente è il caso, come in ultimo quello dei 184 accademici che hanno sottoscritto il “Manifesto per il sì” in vista del prossimo referendum sulla riforma costituzionale varata dall’attuale Esecutivo, in cui i sostenitori tengono a precisare che il testo “non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie”.

Viene tuttavia da chiedersi per quale ragione, dovendo elaborare una legge, tanto più se riformatrice dell’impianto costituzionale, non si consideri necessario ed imprescindibile che la stessa debba essere scritta bene, cioè a dire facilmente intelligibile così da evitare, nei limiti del possibile, che le inevitabili future interpretazioni possano giungere finanche a stravolgerla.

Ecco, questo è il punto.

Sono leggi scritte male per incapacità degli estensori oppure, come è molto più probabile, la loro cripticità è la conseguenza di compromessi non propriamente di livello apprezzabile.

Certo in uno Stato democratico, pluralista, multiculturale e laico come il nostro non possono essere del tutto ignorate le istanze degli organismi rappresentativi del popolo, a condizione però di non stravolgere il nucleo del progetto innovativo.

Sarebbe accettabile procedere per gradi, vale a dire emanare una legge non propriamente convincente se vi fosse, ad esempio, la possibilità di correggerne agevolmente le imperfezioni dopo un primo “rodaggio”. Ma purtroppo tale eventualità non è contemplata dalla nostra cultura legislativa tant’è che le leggi, una volta approvate, producono stabilmente effetti fino all’eventuale loro abrogazione, ovvero modificazioni che se del caso intervengono solo dopo molti anni.

Diversamente, se si accettasse la possibilità di valutare e se del caso modificare le leggi in ipotesi di una loro comprovata inefficacia, riscontrabile peraltro facilmente dopo alcuni anni di operatività, non resterebbe nel caso della ultima riforma costituzionale che l’apprezzamento per la promossa consultazione referendaria essendo questa, prima e più di altre, la riforma che coglie l’essenza della rappresentazione dello Stato che Carl Schmitt individuava nel rapporto dello stesso con il Popolo che, è bene sempre ricordare, in una repubblica democratica come la nostra detiene la sovranità, cioè il potere supremo di governo che può essere esercitato direttamente, per l’appunto con i referendum, oppure attraverso i propri rappresentanti parlamentari.

Ed è proprio questo uno dei punti dolenti, posto che con il passare degli anni si è ormai legittimato un vero e proprio processo di sottrazione di potere effettivo al Parlamento attraverso la decretazione d’urgenza, con conseguente compressione del principio di rappresentanza politica.

Si tratta di un macroscopico processo di modifica sostanziale della nostra Costituzione che sembra passare del tutto sotto silenzio e che consente, sempre più, di aggirare il dettato costituzionale che dovrebbe essere ben calibrato su una rigida suddivisione tra il potere legislativo e quello esecutivo.