Cani come cose ma il divorzio li salverà tutti – 10 novembre 2016

È un luogo comune diffuso, che ha evidenti radici di attendibilità, che il cane sia il migliore amico dell’uomo. Appare per contro decisamente più complesso, per certi versi ardito, sostenere con la medesima convinzione la biunivocità di tale relazione affettiva, posto che gli uomini non sempre dimostrano ai fedeli amici a quattro zampe lo stesso sentimento.

Per quanto potrebbero essere numerosi gli esempi da menzionare a dimostrazione della veridicità di quest’ultimo assunto, è alquanto eloquente il fatto che la nostra legislazione consideri ancora il cane, al pari del gatto o di qualunque altro animale domestico, esattamente alla stregua di una “cosa”, un bene giuridico che, in quanto tale, è anche espropriabile.

Ecco quindi che appare del tutto condivisibile l’iniziativa, ormai da tempo sostenuta da più parti, volta a superare definitivamente tale concezione derivante dalla tradizione del diritto romano, stabilendo così un espresso divieto legislativo, già previsto anche da altri paesi europei, di pignoramento degli animali domestici.

Nel nostro Paese numerosi sono stati, più o meno recentemente, i passi avanti in materia, con l’introduzione di varie disposizioni normative (si pensi, ad esempio, alle pene per il maltrattamento e l’uccisione di animali), ma sul tema della pignorabilità l’atteggiamento del legislatore è rimasto sostanzialmente immutato sino ad oggi.

Con la sempre maggiore affermazione di una sensibilità collettiva che riconosce gli animali quali esseri senzienti e, come tali, meritevoli di maggiore tutela e considerazione rispetto, ad esempio, ad un elettrodomestico o un soprammobile, appare quanto mai necessaria una riforma delle anacronistiche disposizioni di legge vigenti.

In tal senso, oltre all’ingiusta sofferenza inflitta all’animale, sono non trascurabili i profili di violenza e ritorsione psicologica sul proprietario che l’esecuzione forzata è idonea a produrre.

Diciamo che appare alquanto singolare che il nostro legislatore, pur vietando giustamente il pignoramento di cose dotate di un certo valore affettivo per il debitore (tipico è l’esempio della fede nuziale), si ostini a considerare ancora espropriabile un animale domestico che – al di là del suo intrinseco valore puramente patrimoniale, sempre ammesso che sia agevole valutarlo in concreto – rappresenta per il proprietario molto più di un semplice “oggetto”.

Una concezione più evoluta oppure, più semplicemente, attuale del “diritto” consente di escludere definitivamente che lo stesso possa essere considerato una “sovrastruttura”, vale a dire una mera regolamentazione di quanto già si è naturalmente determinato nella società a seguito dello sviluppo economico, sociale e, perché no, antropologico della stessa.

L’ultimo esempio che possiamo addurre a sostegno del superamento di tale concezione è proprio quello del riconoscimento, anche in sede giurisprudenziale, dei principi espressi dal Trattato di Amsterdam, nella parte volta alla tutela del benessere degli animali in quanto esseri “senzienti”, piuttosto che, come fino ad oggi è accaduto e purtroppo frequentemente ancora accade, delle “cose”.

Certo il nostro codice civile, se ci limitassimo ad una interpretazione letterale delle norme che regolano il rapporto con gli animali, non aiuta a superare questa concezione “materialista”, ma le recenti sentenze sul tema propongono approdi interpretativi opposti.

È quanto stabilito, ad esempio, da una sentenza del Tribunale di Roma, pubblicata nei giorni scorsi, che ha riconosciuto al “cane”, animale domestico per antonomasia, uno “status” rilevante nell’ambito familiare, nel quale è considerato alla stregua di un componente. Per questa ragione, in ipotesi di separazione dei coniugi, ma oggi potremmo dire anche in caso di scioglimento di un’unione civile fra partner anche dello stesso sesso, il cane può essere affidato anche congiuntamente, esattamente come potrebbe avvenire per un figlio.