Si rischia la condanna con abiti troppo succinti – 13 dicembre 2012 –

Desta una certa meraviglia, ma diciamo pure un pò di ilarità la lettura di una sentenza recentemente emessa dalla Corte di Cassazione che, nel confermare un provvedimento reso in precedenza dal Giudice di Pace di Bologna, ha ritenuto penalmente responsabile e, per l’effetto, punito con un’ammenda una ragazza, rea di aver indossato in pubblico abiti troppo succinti.

La donna, sorpresa in una via del Capoluogo emiliano “abbigliata in modo tale da far vedere le parti intime del corpo”, era stata condannata in primo grado per aver violato l’articolo 726 del codice penale, che punisce “chiunque, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza”.

Secondo la disposizione codicistica, il reato – da non confondere con il compimento di “atti osceni” in luogo pubblico o aperto al pubblico, fattispecie ben più grave perseguita a norma dell’articolo 527 del codice penale – si perfeziona ogniqualvolta una persona non rispetti gli ordinari parametri del buon costume, generando un certa riprovazione nel prossimo.

Si tratta, in altri termini, di una violazione di principi etici e sociali, ovvero del normale senso di riserbo e contegno che è (o, per meglio dire, dovrebbe essere) proprio di ognuno.

Ferma restando la correttezza formale del provvedimento assunto dalla Corte di Legittimità, è il caso di domandarsi se attualmente nel nostro Paese sia ancora opportuno perseguire a livello penale tali condotte, stante l’evidente e crescente “erotizzazione” della società in cui viviamo.

È innegabile, infatti, che dall’emanazione del vigente codice penale, datato 1930, sino al giorno d’oggi, la collettività intera si è progressivamente “assuefatta” ad usi e costumi che un tempo, nella migliore delle ipotesi, sarebbero di certo stati considerati sconvenienti; di tale processo, indotto o per lo meno accelerato dalle immagini e dai messaggi propinanti quotidianamente da televisione e giornali, il legislatore non può non tenere conto.

Il sentimento di costumatezza, che nel caso di specie rappresenta tanto l’oggetto della tutela penale quanto il parametro di riferimento dell’offesa, è difatti un elemento molto labile, che muta insieme al comune sentire.

In altre parole, non è semplice comprendere come possa una ragazza che veste abiti succinti e molto provocanti commettere un reato penale, benché di straordinaria tenuità, allorquando la portata offensiva della sua condotta non è neppure lontanamente percepita dalla società in cui vive.

È certamente giunto il tempo di ripensare l’ambiguo rapporto tra il comune senso di ritegno e l’illecito penale recepito dalla normativa in vigore, senza moralismi, ipocrisie o vetusti conformismi, con la piena consapevolezza che molte delle figure contravvenzionali attualmente sanzionate dal codice e dalla legislazione speciale necessitino di essere attualizzate e, in taluni casi, indubbiamente depenalizzate.