Giorgio Fuà e la lezione sullo scandalo delle tasse – 20 aprile 2017 –

La dilagante disinformazione e le sempre più diffuse fake news, potrebbero essere la causa della pressoché totale indifferenza mostrata all’ennesimo allarme della Corte dei Conti in merito all’insostenibile peso del fisco che schiaccia gli italiani e le imprese.

Eppure la lettura del “Rapporto 2017” presentato pochi giorni fa dal Presidente della Corte dei Conti dovrebbe far rizzare i capelli in testa anche ai calvi, come si suol dire con una metafora surreale ma efficace. Tra i numerosi rilievi critici, è molto significativa la sottolineatura che la pressione fiscale italiana, essendo tra le più elevate dei Paesi UE, penalizza le nostre imprese in misura eccedente “quasi 25 punti l’onere per l’omologo imprenditore dell’area UE” e che il cuneo fiscale “colloca al livello più alto la differenza tra costo del lavoro a carico dell’imprenditore e reddito netto del lavoratore” di ben 10 punti al di sopra di quello medio europeo. Ma evidentemente lo scetticismo sulle nefaste prospettate conseguenze non soltanto per l’economia bensì per l’intero impianto sociale e istituzionale del nostro Paese, nel caso non intervenisse a breve un rilevante cambiamento di rotta, ha anche indotto ad ignorare i dati ufficiali dell’Ocse che, dopo la Corte dei Conti o per meglio dire a conferma di quanto denunciato da quest’ultima, ha reso noto con l’annuale “taxing wages” che per quanto concerne tasse e contributi sulle famiglie, riescono a fare peggio del nostro Paese soltanto la Francia e la Finlandia. Stati con i quali tuttavia la comparazione in termini di servizi e welfare ci vede soccombenti.

Per altri versi esaminando le disposizioni legislative degli ultimi tempi, soprattutto quelle in materia fiscale, si può facilmente cogliere come le stesse si pongano in contrapposizione con il processo evolutivo dei Paesi maggiormente sviluppati europei e del Nord America, volti al rafforzamento delle garanzie dei soggetti privati nei confronti del potere pubblico. Si tratta di una condivisibile evoluzione ispirata dalla progressiva valorizzazione dei diritti e della libertà della persona come individuo, rispetto all’uomo come collettività la cui enfatizzazione, com’è noto, ha nel passato alimentato le grandi dittature della destra e della sinistra.

A ciò si aggiunga che le insidie di alcuni strumenti legislativi, si consideri tra questi il “redditometro”, pur avendo la condivisibile finalità di reprimere l’evasione fiscale mediante la verifica concreta della incongruenza tra spese sostenute e reddito dichiarato dal contribuente, rappresenta un vulnus per il diritto alla riservatezza e all’intimità familiare la cui tutela, essendo una primaria finalità del nostro ordinamento giuridico, in nessun caso, fosse anche per contrastare un fenomeno odioso come l’evasione fiscale, può essere compressa.

L’accesso ai dati personali e familiari al di fuori di qualsiasi indagine specifica, è in contrasto con i nostri principi giuridici costruiti sulla centralità e inviolabilità della persona e conduce alla cruda semplificazione per cui ogni soggetto è controllato e schedato in quanto potenziale per non dire presunto trasgressore.

È tempo che le preoccupazioni espresse dai principali organismi di controllo e vigilanza in materia fiscale vengano presi in seria considerazione, soprattutto per quanto concerne la situazione dei conti pubblici il cui risanamento non può essere ulteriormente differito ed anzi con forza è legittimo chiedersi che fine hanno fatto gli annunciati tagli netti. Le società partecipate dallo Stato, oppure dagli enti periferici sono migliaia, molte delle quali per attività ingiustificate, in perdita e talvolta con più amministratori che dipendenti. Centinaia di milioni di euro che potrebbero ben trovare una diversa allocazione soprattutto per migliorare i servizi e contenere il peso dell’imposizione fiscale.

Uscendo dal politicamente corretto va detto con chiarezza che è priva di fondamento la tesi secondo la quale la crisi economica e finanziaria che da anni ci attanaglia è la giustificazione e causa dell’attuale condizione fiscale. In proposito sarebbe utile per tutti, la rilettura delle belle pagine di Giorgio Fuà, che già nel lontano 1985 argomentava che troppe tasse, oltre a non fare bene alle nostre tasche e all’economia italiana, rappresentano la causa prima della disamministrazione della ingiustizia fiscale. L’ideatore del “Modello adriatico”, stiamo parlando di uno dei maggiori economisti italiani, nei suoi scritti non ha mancato di ammonire che “lo scandalo primario sta nel voler basare sui redditi un prelievo esorbitante, ed è ingenuo poi stupirsi se una pretesa così ingenua rimane insoddisfatta”. Esattamente ciò che oggi, a distanza di oltre trent’anni, seppure con altre parole, viene rilevato dalla suprema magistratura contabile italiana.