Le inchieste ingiustificate e la coscienza del danno – 15 settembre 2016

Si è conclusa con l’assoluzione con formula piena per la stragrande maggioranza degli interessati la maxi inchiesta anconetana sulle presunte “spese facili” a Palazzo Raffaello a carico di molti consiglieri regionali e addetti ai gruppi dell’Assemblea Legislativa marchigiana, accusati a vario titolo di reati contro la pubblica amministrazione.

Tra le oltre sessanta persone finite sotto processo figurano anche l’allora Presidente della Giunta Regionale, l’ex Vice Presidente dell’Assemblea Legislativa e il segretario del partito di maggioranza.

Secondo l’ipotesi accusatoria formulata dalla Procura di Ancona, in Regione tra il 2008 e il 2012 sarebbero stati distratti dai predetti imputati fondi pubblici per spese private.

Lo scorso 12 settembre tuttavia il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale del Capoluogo marchigiano, Francesca Zagoreo, ha in larga parte sconfessato le tesi della Procura, assolvendo quasi tutti e rinviando a giudizio solo sei persone, peraltro per alcuni capi minori di imputazione.

In altri termini, non ci sarebbe stata alcuna irregolarità nel modo in cui sono stati spesi i soldi pubblici.

In attesa di conoscere le motivazioni del provvedimento, attese per i prossimi mesi, è lecito interrogarsi sull’effettiva utilità di un’inchiesta che ha avuto comprensibilmente un grande rilievo mediatico, coinvolto oltre sessanta persone per circa tre anni (con riflessi inevitabili sui relativi nuclei familiari) e impegnato non poco gli uffici della Procura, con un dispendio tutt’altro che irrilevante di mezzi ed energie.

Ciò non vuol dire, ovviamente, che tutte le inchieste, per essere considerate giuste o per meglio dire legittime, debbano sfociare per forza in una sentenza di condanna dell’imputato, ma certamente la decisione assunta dal Gup, Magistrato del cui rigore e preparazione non è dato di dubitare, induce a talune riflessioni, seppur di carattere generale, sulle implicazioni che un’indagine comporta per chi la subisce, considerando che in materia penale i provvedimenti hanno ad oggetto le vite delle persone.

La consapevolezza della non assoluta infallibilità del giudice e la concreta possibilità dell’errore giudiziario e delle inchieste, queste ultime in larga misura nelle mani dei consulenti, rappresentano l’essenza delle ragioni che sempre dovrebbero indurre alla cautela ed allo scrupoloso, se vogliamo sinanche ossessivo, rispetto delle regole, volte ad evitare che vengano assunte decisioni sbagliate.

Una logica evidentemente poco condivisa se si considera che, nonostante la sua ormai acclarata inutilità come deterrente, in molti paesi si persevera ancora oggi nella condanna alla pena capitale.

In definitiva si può dire che poco è cambiato dai tempi in cui nell’ormai lontano 1965 Giuseppe Sotgiu, nei suoi scritti sull’errore giudiziario, insisteva sulla necessità di dare assoluta priorità al principio “in dubio pro reo”.

É tempo di riproporre, in tutta la sua drammatica incidenza, la questione dell’errore giudiziario e, ancora prima, delle inchieste ingiustificate. Prendere definitivamente coscienza dei danni non rimediabili che si possono determinare, talvolta ancora prima di una sentenza di condanna.

Il nostro ordinamento, peraltro, prevede un indennizzo solo in casi di ingiusta detenzione, di irragionevole durata del processo e di acclarati errori giudiziari, ma non contempla la risarcibilità del danno da ingiusta imputazione, né tantomeno per l’ingiusta promozione di un’indagine, al di fuori dei casi in cui ricorrono reati di calunnia.

In definitiva, chiunque potrebbe essere gravemente danneggiato da un’inchiesta senza avere la benché minima possibilità di ottenere una riparazione e subire il pregiudizio che anche dopo l’assoluzione permane nei confronti dell’indagato o dell’imputato da parte dell’opinione pubblica.

Certo un’indagine fa più scalpore di un proscioglimento, soprattutto se ad essere coinvolti sono dei politici nei confronti dei quali, come categoria, è difficile essere benevoli.

Tuttavia ogni procedimento penale deve essere improntato al rispetto dell’art. 27 della Costituzione, per il quale “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

È questo il punto. Tra la paventata e mai pienamente attuata riforma della giustizia penale sarebbe ora di ripensare il modello del processo accusatorio recepito dal nostro legislatore e il principio di obbligatorietà dell’azione penale che non mancano, ormai da molti anni a questa parte, di dare prova del loro malfunzionamento.