La pubblica amministrazione può finalmente voltare pagina – 22 giugno 2017 –

Oggi è un giorno storico per il pubblico impiego. E già, perché proprio oggi entra in vigore il nuovo testo unico del pubblico impiego meglio noto come “Decreto Madia” dal nome dell’attuale Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, che ne ha curato il complesso e contrastato iter legislativo. Il provvedimento introduce numerose novità tra le quali quella molto attesa del superamento del precariato nella pubblica amministrazione, attraverso un processo di stabilizzazione dei contratti a tempo determinato; inoltre sempre nel prossimo triennio 2018-2020, le amministrazioni pubbliche potranno bandire, in ragione dei loro fabbisogni e previa indicazione della relativa copertura finanziaria, procedure concorsuali riservate.

Si tratta di progetti molto ambiziosi e volti all’apprezzabile tentativo di risolvere l’annoso problema del precariato nella pubblica amministrazione.

Non di meno dobbiamo considerare il pericolo che gli stessi sottendono nel caso in cui le amministrazioni interessate non dovessero essere in grado di sostenere a regime le spese del personale da stabilizzare, per mancanza di risorse.

La legge, in questa malaugurata ipotesi, avrebbe effetti molto più limitati rispetto a quelli che oggi trionfalmente vengono auspicati e le conseguenze non sarebbero da sottovalutare posto che i lavoratori interessati sono ormai da tempo sul piede di guerra.

Tuttavia, più di ogni altro l’argomento rappresentativo dell’avvio di un nuovo corso amministrativo, o se si preferisce culturale, è il rinnovamento della normativa disciplinare e in particolare il licenziamento per scarso rendimento di coloro che non rispettando gli obblighi di lavoro, conseguiranno valutazioni negative del loro operato per tre anni di seguito.

Certo non possiamo dire vi sia stato un totale allineamento con l’impiego privato anche se non può negarsi che dei passi in avanti sono stati fatti nonostante le forti critiche del Consiglio di Stato il quale nell’esprimere, attraverso la propria Commissione speciale, il parere obbligatorio al decreto legislativo prima della sua approvazione, non ha lesinato critiche al meccanismo delle sanzioni disciplinari, ritenuto “troppo rigido” e, per altri versi, rischioso per il dipendente esposto ad un esercizio dell’azione disciplinare arbitrario se non addirittura ritorsivo.

A prescindere dalle preoccupazioni del Consiglio di Stato, per altro in linea con quelle già manifestate dalla Corte Costituzionale e da quella di Cassazione, che tuttavia appaiono apprezzabili soprattutto sotto il profilo della tutela del principio di legalità piuttosto che quello più sostanzialmente rilevante, del conseguimento della parità tra dipendenti pubblici e privati, ciò che colpisce è il definitivo superamento della sacralità del mito del “posto fisso”.

Una nozione tradizionale risalente ai tempi della magistralmente rappresentata iconografia popolare italiana, dal ragionier Ugo Fantozzi. L’uomo che nel nostro Paese ha incarnato l’immagine dell’impiegato travolto dalla quotidiana routine, frenetica e cadenzata, in linea con gli stereotipi imposti dall’ingranaggio della burocrazia.

Si potrebbe obiettare che si tratta di una visione anacronistica risalente al periodo del boom economico degli anni ’60.

Purtroppo non è così, come Checco Zalone, anch’egli straordinario illustratore dei tempi moderni, ha ben raffigurato con il suo “Quo vado?”, un film del 2016.

Sarà il tempo a provare se effettivamente la nuova riforma del pubblico impiego avrà favorito la nascita di nuove generazioni disposte a rinunciare definitivamente al sogno del posto fisso, ovvero a ciò che nella realtà è già da tempo avvenuto, come documentato dai dati statistici che indicano nella misura del 30% in meno le assunzioni a tempo indeterminato nell’ultimo lustro. Ma anche dallo sviluppo delle nuove professioni emergenti dalle reti sociali e quelle caratterizzate dalla separazione delle prestazioni lavorative dal luogo in cui le stesse avvengono.

Nei prossimi anni, diciamo entro il 2025, la maggioranza della forza lavoro sarà rappresentata da giovani nati negli anni ‘80 e ’90.

Persone che come è già evidente, prediligono una modalità organizzativa del lavoro sempre più tendente all’indipendenza ed alla destrutturazione gerarchica. Caratteristiche che verosimilmente consentiranno di ottenere risultati più efficaci di quelli attuali a condizione che, al contempo, vi sia anche un loro pieno riconoscimento dalle politiche economiche e del lavoro.