Nuovo linguaggio e modi di dire: è anche questione di diritto – 25 giugno 2015 –

Il linguaggio è il settore culturale che forse più di altri è evoluto o comunque fortemente modificato grazie al determinante contributo dei giovani, autori, per l’appunto, del c.d. fenomeno “italiano neostandard”.
Secondo studi della cui attendibilità non è dato dubitare, i termini nuovi negli ultimi anni sono oltre 4.000, circostanza che evidenzia la vivacità della lingua italiana.
Tuttavia il fermento di un nuovo linguaggio è, a ben vedere, imputabile anche al diritto, o per meglio dire alle sempre più frequenti interpretazioni che i giudici offrono in ordine a “modi di dire” che soltanto poco tempo addietro costituivano veri e propri reati, anche se di portata “minore”.
In questo vasto ed eterogeneo insieme di reati “minori” possono essere ricondotti l’ingiuria; la diffamazione e gran parte dei delitti “contro l’onore”, la cui valenza offensiva è, per l’appunto, condizionata dai continui mutamenti della coscienza sociale.
L’odierno codice di espressione è certamente più disinvolto, se vogliamo più “irruento” rispetto a quelli usati in precedenza. Si tratta di una tendenza rinvenibile nei rapporti interpersonali ma anche in quelli istituzionali.
Se si pensa, ad esempio, alle espressioni ed ai toni oggi abitualmente utilizzati in politica rispetto a quelli di qualche decennio fa, risulta evidente un mutamento radicale della sensibilità individuale e collettiva, da cui discende una diversa percezione dell’offesa e, coerentemente, una differente valutazione della stessa sotto il profilo penale.
Ecco quindi che affibbiare al nostro contraddittore l’epiteto di “pazzo” potrebbe non integrare gli estremi del reato di ingiuria, come ritenuto di recente dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 50969/2014), poiché l’espressione di per sé disdicevole, in concorso di particolari circostanze (ad esempio, durante una lite) perde la sua potenzialità lesiva. Anche in altre numerose occasioni i giudici hanno dimostrato piena consapevolezza del processo di trasformazione storico – sociale, come nel caso in cui hanno stabilito che apostrofare la suocera come “vipera” oppure la vicina di casa come “esaurita”, non costituisca automaticamente un illecito penale, essendo ormai detta terminologia entrata nell’uso “comune”.
In questo incessante mutamento lessicale capita, peraltro, che espressioni non propriamente edificanti possano assumere, in un certo contesto, addirittura una valenza elogiativa. È il caso della locuzione “toga rossa” che, per la Corte di Cassazione (sentenza n.1435/2015), lungi dal rappresentare un’offesa, deve essere considerata un encomio per il magistrato in quanto sinonimo di indipendenza dalla politica.
Bene l’osmosi tra lingua colloquiale e quella formale. Ma evitiamo che le parole perdano del tutto la loro connotazione oggettiva.