La separazione non giudiziale

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untitled000Nell’ordinamento italiano, fino all’entrata in vigore delle leggi sul divorzio e sulla riforma del diritto di famiglia, il matrimonio era ispirato al principio dell’indissolubilità del vincolo, strettamente legato alla concezione cristiana, per cui l’unica causa del suo scioglimento era data dalla morte di uno dei coniugi (art. 149 c.c.), cui si aggiungeva, come causa sia pure temporanea ed in astratto destinata a venir meno, la dichiarazione di morte presunta.
Il rigore di un tale sistema, imperniato sull’impossibilità di procedere a qualunque forma di scioglimento, di risoluzione, di rescissione del vincolo, unitamente alla necessità di porre comunque un limite alle conseguenze del principio di indissolubilità (in tutti i casi in cui la convivenza fonte di sofferenza notevole a seguito di gravi fatti incidenti sulla comunione coniugale), ha ben presto indotto la comunità a tollerare la possibilità di sospendere la esigibilità di taluni obblighi e doveri propri del matrimonio senza che il vincolo, destinato per sua natura a durare nel tempo, ne fosse intaccato.
La figura della separazione personale fu tuttavia percepita dall’opinione pubblica quasi sempre come “situazione ibrida”, in quanto si poneva come mezzo di mediazione tra due esigenze inconciliabili: i coniugi non riuscivano più a tollerarsi, eppure il matrimonio restava indissolubile.
In seguito è intervenuta la l. n. 898/1970, che , annoverando la separazione tra i requisiti necessari ai fini dello scioglimento del matrimonio, le ha attribuito un’importanza nuova, sicuramente maggiore rispetto al passato, dal momento che statisticamente questa è la via “privilegiata” per giungere alla cessazione del vincolo matrimoniale.

Il Punto – UTET – Anno 2001