Le Marche in sofferenza ma la Russia non piange – 6 ottobre 2016

Le Marche risultano essere tra le regioni più penalizzate dal crollo delle esportazioni verso la Russia che, si stima, siano ormai diminuite di circa il 30%.

A subirne le conseguenze maggiori è il settore manifatturiero che continua a registrare una forte contrazione al punto che le previsioni per l’anno in corso sono di un’ulteriore riduzione rispetto a quelli precedenti.

Si tratta di un danno, quello subito dalla imprese marchigiane, particolarmente rilevante se si considera che, solo per restare ai dati ormai cristallizzati, già nel primo trimestre del 2015 ammontava a circa 77 milioni di euro, molto parzialmente controbilanciato dalla implementazione della domanda interna, con conseguenti ricadute negative soprattutto sull’occupazione, la cui lieve crescita registrata nella parte finale dell’anno 2015 è per lo più frutto della riforma della disciplina del rapporto di lavoro e quindi per gli sgravi contributivi previsti per le nuove assunzioni, considerando come tali anche quelle trasformate da tempo determinato a tempo indeterminato.

Per altri versi la Russia, per mitigare gli effetti delle sanzioni, ha implementato i rapporti commerciali con i nostri concorrenti asiatici e, quanto più sorprende, anche con gli Usa, vale a dire il Paese che prima e più di altri ha ritenuto di attuare il blocco commerciale sanzionatorio, di fatto imponendolo al Vecchio Continente, che ne ha subito conseguenze negative in termini di export e di import di beni e servizi. Difatti non può certamente essere dimenticato che la Russia è leader mondiale nell’agroalimentare e nel gas metano ed era uno dei principali partner commerciali dell’Europa.

Stando ad un’indagine della CGIA di Mestre, le “sanzioni” inflitte alla Russia hanno comportato una perdita per l’Italia, dal 2014 ad oggi, di 3.6 miliardi di euro. Purtroppo in parte, come si diceva, ascrivibili al comparto manifatturiero e quindi, per quanto più da vicino ci riguarda, calzature, abbigliamento e mobili. A fronte di ciò è palesemente inconsistente lo stanziamento di 125 milioni di euro da parte della Ue a tutti i paesi membri a titolo di ristoro dei danni subiti a seguito del blocco dei rapporti commerciali con la Russia, poiché, con buona approssimazione, detta cifra costituisce una componente infinitesimale delle perdite.

A ben vedere la Russia, rivolgendosi ad altri mercati, non ha sofferto più di tanto cosicché, per quanto paradossale possa apparire, siamo al punto che i sanzionatori, cioè i Paesi Ue, sono più penalizzati dei sanzionati.

Altrettanto singolare è che sempre più impercettibili risultano essere le ragioni dell’embargo anche se, com’è noto, lo stesso è riconducibile alla discussa occupazione della Crimea.

La complessa verifica della realtà dei fatti, resa ancora più incomprensibile dalle contrapposte ragioni, non consente di accertare se le contestazioni mosse alla Russia siano fondate, come ritiene in larga parte la comunità internazionale, oppure se la Crimea abbia liberamente scelto, con il referendum del 2014, di ritornare spontaneamente alle origini dopo essere stata “donata” all’Ucraina nel lontano 1954 dall’allora leader sovietico Nikita Krusciov.

Non è neanche facile superare la cifra autolesionista della comunità mondiale che caratterizza la decisione sanzionatoria, posto che quest’ultima dopo aver apportato un contributo straordinariamente rilevante e, per certi versi, decisivo per la crescita della Russia investendo, nel 1998 per il tramite del Fondo Monetario Internazionale, 11.2 miliardi di dollari, vorrebbe ora affossarla con il rischio, ove cioè fosse astrattamente realizzabile, di affliggere nuovamente quel popolo che, proprio grazie ai cospicui interventi internazionali, ha di gran lunga dimezzato la povertà.

È giunto il tempo di rivedere il sistema sanzionatorio attuato poiché è chiaro a tutti che a distanza di due anni circa dallo stesso il risultato che si intendeva conseguire non è stato raggiunto, mentre è seriamente in discussione in taluni casi sinanche la sopravvivenza delle nostre realtà imprenditoriali e del “Made in Italy”; un patrimonio che non sempre siamo stati capaci di custodire e tutelare come meriterebbe.