L’altra infelicità – 4 maggio 2009 –

La crisi della famiglia è rappresentata, secondo una diffusa opinione, dall’aumento negli ultimi dieci anni del 57% delle separazioni e 73% dei divorzi. Ma l’incremento del profilo patologico del rapporto coniugale non spiega le ragioni della crisi, la cui attualità è indubbia.

Verosimilmente più che la famiglia, le difficoltà riguardano il matrimonio che ultimamente sembra aver assunto nuovamente connotazioni ottocentesche, quando ci si sposava soprattutto per interesse, per fronteggiare insieme le necessità dell’esistenza e per garantirsi un’adeguata e dignitosa sopravvivenza. D’altra parte in una società come la nostra, caratterizzata da un incidente consumismo e da un’esaltata etica dell’apparire, è difficile sfuggire a tali imposizioni generazionali. Più che una libera scelta, il matrimonio è condizionato dalla ricchezza e potere degli uomini e dall’avvenenza e sex-appeal delle donne.

La conseguenza è in molti casi l’infelicità familiare e, quindi, maggiore possibilità di scioglimento del vincolo coniugale. I rimedi sono peggiori del male: separarsi è un lusso al quale talvolta bisogna rinunciare per inadeguatezza economica o condizione sociale.

A fronte di ciò va detto che gli strumenti legislativi messi in campo, come l’istituto della mediazione familiare, non hanno dato i risultati auspicati, cosicché è tutt’altro che superata l’esigenza di promuovere un processo terapeutico della famiglia con la partecipazione di sociologi, psicologi e giuristi al fine di ridisegnarne la funzione.

Si tratta di un processo lungo e complesso anche se alcuni risultati, tutt’altro che secondari, potrebbero essere conseguiti in tempi ragionevolmente brevi.

La durata dei procedimenti di divorzio, tanto per cominciare, dovrebbe essere più contenuta, anche al fine di adeguare il nostro Paese agli altri dell’Unione Europea.

In Italia, infatti, queste procedure sono più lunghe che altrove: 634 giorni a fronte della Francia, che segue con 477 giorni, il Portogallo con 325, e la Germania, con 321.

Ancor più significativo è che, a differenza di quanto avviene negli altri 46 paesi del Consiglio d’Europa, da noi il procedimento di scioglimento del matrimonio si realizza in due fasi: la separazione e successivamente, con un tempo di attesa minimo inizialmente di cinque anni, e a partire dal 1987 di tre anni, il divorzio.

L’attuale disciplina legislativa produce sostanzialmente un prolungamento del contenzioso tra i coniugi, acuendo la litigiosità tra gli stessi e negando loro, al contempo, la possibilità di riorganizzarsi la propria vita.

D’altra parte durante l’imposta fase di riflessione è del tutto insignificante la percentuale di riconciliazione. A ciò deve aggiungersi la sollecitazione del Cepej (Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia) di promulgare misure legislative urgenti per ridurre i tempi dei procedimenti di separazione e divorzio, al fine di aumentare la competitività ed efficienza del nostro sistema giudiziario in questo delicato settore della giustizia civile. Tutt’altro che secondario è, inoltre, il rilevante costo economico e sociale delle procedure. Da una recente indagine Eurispes, del 27 febbraio 2009, è emerso che le domande di separazione, consensuali o giudiziali, sono oltre centomila all’anno, con un costo per lo Stato di circa 89 milioni per il solo 2006.

Questi dati dovrebbero far riflettere, scevri da ogni influsso ideologico o religioso, sulla necessità di una drastica riduzione dei tempi di attesa per chi vuole ottenere il divorzio e, quindi, attuare soluzioni in linea con i principi costituzionali del nostro ordinamento per il raggiungimento di un equilibrio tra le esigenze delle persone, dei figli in particolar modo, ed il rispetto dell’autonomia e delle scelte individuali.