E che sia economia reale – 28 aprile 2016

Sono all’incirca 44 mila i ragazzi marchigiani di età compresa tra i 15 e i 29 anni (in pratica, quasi il 20% del totale regionale) che non svolgono alcuna attività. Si tratta dei c.d. “n.e.e.t.”, acronimo per l’inglese “Not in Education, Employment or Training”, un esercito di inattivi che non studiano e non hanno un impiego lavorativo.

Come loro, molti altri giovani italiani vivono una simile condizione (la media nazionale è di circa il 25%), con poche speranze di invertire la rotta.

Che l’Italia non sia un paese per ragazzi lo testimonia anche il tasso impietoso di disoccupazione giovanile che, secondo le ultime rilevazioni, è attestato al 37,9%. In Europa, ove la media è del 22%, riescono a fare peggio di noi solo la Spagna (46%) e la Grecia (48,6%).

Uno scenario allarmante, che riesce quasi a far apparire confortante il tasso di inattività e quello di disoccupazione generale, attestati rispettivamente al 36% e all’11,7% secondo gli ultimi dati Istat dello scorso febbraio.

É certamente lecito domandarsi se il lavoro può ancora essere considerato il fondamento della nostra Repubblica, come enfaticamente recita l’articolo 1 della Costituzione o, piuttosto, un privilegio per pochi. Ovviamente non è un bene che esiste in natura, né tantomeno può essere creato con disposizioni di legge; tuttavia possono essere favorite e stimolate le condizioni più idonee alla creazione di opportunità lavorative, non soltanto come “strumenti” utili a garantire il benessere economico, ma anche come mezzi attraverso cui ogni cittadino può affermare la propria personalità e garantire il funzionamento dell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

In altre parole, il diritto al lavoro che comprende anche l’esercizio di una libera professione trova piena tutela oltre che a livello costituzionale anche sovranazionale e, in particolare, nell’articolo 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, tra le altre cose, garantisce la libera circolazione dei lavoratori sul territorio dell’Unione ed al contempo equipara i cittadini europei a quelli dei paesi terzi autorizzati a lavorare negli stati membri.

Ecco dunque che le prossime celebrazioni della Festa del lavoro dovranno costituire un’occasione per rinnovare l’universalità del tema, considerando che la scelta del 1 maggio è avvenuta in ragione dei gravi fatti di Chicago dell’ormai lontano 1886, ove venne repressa nel sangue una manifestazione di lavoratori di una fabbrica di macchine agricole; ma anche, forse soprattutto, per interrogarsi sull’attualità della concezione del lavoro elaborata dai Costituenti nell’ottobre del 1946 e definitivamente inserita nella Carta nel dicembre del 1947.

Dovremmo oggi, come allora, considerarlo fondamento sociale della Repubblica ed il principio distintivo della nostra forma di stato e, in quanto tale, munito di una forza tale da condizionare l’interpretazione della stessa Costituzione, mentre sul fronte più propriamente economico è tempo che venga restituita centralità all’economia reale.